mercoledì 2 gennaio 2008

Fra Turchia e IRaq, dove il confine non esiste più - Orsola Casagrande

Fra Turchia e Iraq, dove il confine non esiste più

Le «operazioni di pulizia» dell'esercito turco contro il Pkk sono ormai diventate attacchi contro i kurdi e Diyarbakir vive da città in guerra, come negli anni '90

Il rumore degli F16 che sorvolano il cielo azzurro di Diyarbakir è costante. Partono la mattina diretti verso la provincia di Hakkari. Il confine con il nord Iraq non esiste più per gli aerei da guerra turchi. Da una settimana ormai le forze armate turche sono impegnate nei bombardamenti delle postazioni dei guerriglieri del Pkk. In realtà le vittime ci sono anche tra i civili, nonostante le smentite del capo dell'esercito e del premier Recep Tayip Erdogan che in parlamento il giorno di natale ha ribadito con veemenza: «Chi continua a sostenere che nei bombardamenti che vedono impegnati i nostri soldati ci sono state vittime civili mente e lo fa deliberatamente». Erdogan dunque dà apertamente del bugiardo al presidente del Kurdistan iracheno Masoud Barzani che ha assunto toni molto duri nei confronti della Turchia e delle operazioni oltre confine che, a detta di Barzani, distruggono villaggi uccidendo civili e animali.
La propaganda del governo turco è pesantissima. Le trasmissioni televisive sono costantemente interrotte per dare gli ultimi aggiornamenti sulle «operazioni di pulizia» dell'esercito. Le fotografie delle presunte postazioni della guerriglia mostrate decine di volte e i comunicati delle forze armate ripetuti all'infinito. La campagna anti Pkk si è presto trasformata in campagna anti-kurdi. I kurdi di Istanbul come quelli di Ankara hanno paura. «Non usciamo molto per strada in questi giorni - ammette N. che fa l'avvocata a Istanbul e viene da Mardin - se usciamo è solo per andare al lavoro e comunque usciamo in coppia». La guerra è nelle conversazioni di tutti. Al caffé come nelle abitazioni. A scuola come dal barbiere. In autobus si passa ben presto dalle chiacchiere casuali sul tempo all'eroismo dei militari turchi che «stanno dando una lezione memorabile ai terroristi».
A Diyarbakir le strade sono piene di polizia e di militari. La gente viene sistematicamente fermata per strada. Il clima sembra quello degli anni '90. La teror mucadele, la lotta al terrorismo, è la stessa. E Diyarbakir vive come una città in guerra. Qui il rumore degli F16 che vanno a bombardare in nord Iraq è ormai «normale». «Ma normale nel senso che lo riconosceresti tra mille - dice A. giovane mamma con un passato in carcere, accusata di essere membro del Pkk - perché questo è il rumore della morte».
Sui muri di Diyarbakir sono ancora affissi i manifesti elettorali. Sbiaditi, strappati, come ben presto dopo il 22 luglio sono svanite le speranze di quanti credevano che la vittoria del Dtp e l'elezione in parlamento di 20 deputati avrebbero determinato un cambiamento di rotta nella politica dell'Akp al governo. Una ventata di aria nuova, si diceva, avrebbe attraversato il paese. I tempi si pensavano maturi. Almeno per affrontare a carte scoperte la questione kurda. Cosi non è stato e le operazioni militari di questi giorni lo confermano. I deputati del Dtp vengono denunciati, processati e, come nel caso del presidente del partito eletto proprio a Diyarbakir, Selahattin Demirtas, arrestati.
Spostarsi da Diyarbakir non è facile. Le strade sono interrotte da numerosi posti di blocco. Carri armati e convogli militari passano costantemente. Quella di Hakkari è la provincia che confina con l'Iraq e Cukurca è il distretto più vicino al confine. E' a pochi chilometri da qui che il giorno di natale c'è stato il quarto bombardamento. La gente cerca di vivere «normalmente» e accusa i media di alimentare l'odio contribuendo a un clima già molto bellicoso e nazionalista. «I venti milioni di dollari che hanno speso per questi bombardamenti - dice S. che lavora con l'associazione per i diritti umani (Ihd) - potevano essere usati per risolvere i problemi della nostra tormentata regione». Il fruttivendolo Haci dice che la notte la sua famiglia dorme al massimo due ore. «I muri della casa si stanno tutti crepando, sembra di stare in uno stato di terremoto permanente - dice - i miei bambini sono terrorizzati e non vogliono uscire di casa». Per Haci ormai non si contano più le persone denunciate. «Hanno instaurato un clima di sospetto perenne - dice - ormai ti denunciano anche se stai portando a casa un sacco di farina».
La guerra è anche sui numeri. I giornali ieri parlavano di almeno 175 morti tra i guerriglieri. Il Pkk smentisce. Ma certo è che su quelle montagne che paiono così vicine la morte è ovunque. Lo ha denunciato il presidente kurdo Barzani.
La guerra colpisce anche la Turchia. C'e' infatti un fronte interno, con i militari che bombardano la zona di Dersim, a nord di Diyarbakir. E poi ci sono i profughi perenni. In teoria il governo Erdogan sostiene il programma di «ritorno» nei villaggi bombardati o dati alle fiamme negli anni '90. In realtà sono pochi quelli che sono riusciti a tornare e ancora meno quelli che, oggi, riescono a restare. Succede per esempio a Cayirli a 17 chilometri da Cukurca. Il permesso per tornare diverse famiglie ce l'hanno. Peccato che una volte arrivate alle porte del villaggio sono rimandate indietro dai militari che presidiano la zona. Mehmet Kanar, presidente del Dtp in questa zona dice che «le bombe non aiutano né i turchi né i kurdi. La questione non può essere risolta con le armi. I nostri bambini subiscono danni psicologici enormi. Durante la prima operazione oltre confine due donne incinte hanno perso i loro figli. Chi pagherà per questo?». La domanda è rivolta anche all'Europa che ha appoggiato la Turchia in questa operazione militare. «Problema interno», si è detto.